Interventi corretti nel campo della prevenzione dei disastri
richiedono una capacità di comprensione e una intelligenza "alta ".
Non si tratta soltanto di scoprire le cause immediate che portano all’evento disastroso,
ma piuttosto di capire che si è in presenza di un problema di carattere sociale,
oltre che tecnico, in cui la distribuzione della conoscenza e delle informazioni
relative all’evento giocano un ruolo fondamentale.
Il crollo del ponte di Genova ha lasciato dietro di sé oltre alle vittime e al dolore una scia di polemiche. Qui, messe da parte le polemiche, avendo espresso il nostro cordoglio per le vittime e la nostra vicinanza alle famiglie colpite, vogliamo concentrarci su un libro che descrive il quadro generale in cui si collocano gli eventi catastrofici, allo scopo di indicare comportamenti e strategie, se non per evitare i disastri (c’è sempre infatti una casualità da mettere in conto), almeno per prevenirli e limitarli.
Ci sembra questo l’omaggio più onesto che possiamo dare a tutte le vittime dei nostri disastri e alle famiglie che ne sono state colpite: da quelle di Genova a quelle di Rigopiano, dai bambini e la maestra di San Giuliano di Puglia alle vittime del treno di Viareggio, e a tutte le altre, incluse le vittime dei disastri ambientali, che sono numerosi, estesi e prolungati nel tempo.
Il libro è
Man-Made Disasters di Barry A. Turner (Wykeham Pubblications, prima edizione 1978). Nella versione italiana (traduzione di Andrea Merzagora), con il titolo
Disastri: la responsabilità dell’uomo nelle catastrofi, è stato pubblicato nel 2001 da Einaudi nella collana Edizioni di Comunità. A causa della morte prematura del suo autore nel 1995, mentre stava rivedendo il volume per una seconda edizione, Nick F. Pidgeon ha ripreso il lavoro di Turner completandolo con un undicesimo capitolo. Il libro così rivisto è stato ripubblicato nel 1997 (B. A. Turner, N. E. Pidgeon,
Man-made Disasters, Butterworth-Heinemann, Oxford, 1997).
Il libro è praticamente introvabile. In italiano si trova solo presso alcune librerie pubbliche. In lingua originale c’è ancora qualche copia in giro ma il costo è proibitivo. Online esiste (in inglese) una sintesi piuttosto completa dei temi fondamentali che vi sono trattati, capitolo per capitolo (dieci capitoli).
Il libro si basa sulle analisi approfondite di un certo numero di rapporti ufficiali relativi a disastri (84 in tutto) verificatisi in Gran Bretagna nel decennio precedente la sua stesura e pubblicazione. La sintesi va diretta al cuore dei risultati e dei modelli che l’ ha costruito a partire da tali analisi.
Senza addentrarci nei singoli capitoli (come invece è stato fatto nella sintesi che riportiamo integralmente nella sezione
APPROFONDIMENTI in questa pagina), cercheremo qui di chiarire i modelli che Turner ha presentato nel suo lavoro. Lo scopo è di contribuire in modo razionale e non emotivo alla comprensione di quanto è successo, a Genova come in altri disastri italiani, e di offrire, possibilmente, un primo quadro d’insieme delle variabili in gioco. Capire, approfondire, essere consapevoli è il primo passo per una concreta operatività da parte di tutti nella prevenzione dei disastri: istituzioni, gestori, tecnici e singoli cittadini.
Interventi corretti nel campo della prevenzione dei disastri richiedono una capacità di comprensione e una intelligenza "
alta". È questa la premessa allo studio. Non si tratta soltanto di scoprire le cause immediate che portano all’evento disastroso, ma piuttosto di capire che si è in presenza di un problema di carattere sociale oltre che tecnico in cui la distribuzione della conoscenza e delle informazioni relative all’evento giocano un ruolo fondamentale.
L’esperienza insegna. Quindi linee guida attendibili per arrivare a questo tipo di conoscenza preventiva, tragicamente, possono venire solo dalla analisi approfondita e minuziosa dei disastri già avvenuti.
La dimensione e la probabilità di eventi disastrosi sono il risultato di tre cause concomitanti: l’accumulazione di energia, i disordini ambientali e le influenze e i condizionamenti umani. Viviamo in comunità organizzate in sistemi e gerarchie e amministrate attraverso regole. Occorre quindi riflettere sulle interconnessioni fra le
gerarchie del potere e le conoscenze
ufficiali. Quelle, cioè, vagliate, approvate e ufficialmente riconosciute come metro di attendibilità tecnico-scientifica. Un punto di grande delicatezza che investe il tema della responsabilità personale.
Nella società moderna occidentale i disastri rappresentano sempre dei fallimenti: fallimento della razionalità nel pensiero e fallimento della razionalità nei comportamenti collegati al controllo dei sistemi, sia quelli specifici, sia quello globale. È a causa di questi fallimenti che si verifica l’esplosione violenta di quella energia che genera il disastro: una energia incontrollata quando esplode ma non incontrollabile prima della esplosione.
Si tende a delegare i controlli affidandone la responsabilità a gruppi ristretti di persone che sono ai vertici dei grandi sistemi di controllo (
large players). Organismi di controllo che sono loro stessi in qualche modo condizionati dall’ambiente a cui appartengono e che cambia nel tempo.
Nell’affrontare lo studio dei disastri, nel farne l’elenco e nel tentarne una classificazione, serve a poco consultare le statistiche perché il numero degli eventi disastrosi è funzione della densità di popolazione. Molto più utile, invece, è studiare il periodo che precede il disastro: si scopre allora che le precondizioni per il disastro sono di tipo tecnico, sociale, amministrativo e anche psicologico.
Un disastro, cioè un fallimento, significa che le cose non continuano più come al solito. Questo è vero anche quando le catastrofi non sono di tipo tecnico come accade, per esempio, per quelle naturali o per quelle economiche. Non basta che alcuni sistemi (minori o particolari) siano dotati di un certo grado di autocompensazione e di autodifesa, occorre pensare al sistema nella sua globalità e complessità e prestare attenzione agli eventi accidentali più piccoli e alle mancanze "quasi trascurabili". Occorre mettere in campo modelli che contemplino cause di tipo psicologico ed errori umani, soprattutto nel caso di disastri che hanno a che fare con il lavoro e la sicurezza sul lavoro.
Quanto ai disastri dovuti a cedimenti strutturali, occorre ricordare che gli ingegneri lavorano in condizioni di conoscenza e di esperienza limitate e che gran parte del loro sapere si fonda sulla sperimentazione (
trial and error). Inoltre, supposto anche che le scienze applicate siano scienze esatte (e non lo sono), è necessario tenere in considerazione i limiti dell’elemento umano e i limiti del cosiddetto "stato dell’arte" dei materiali, degli strumenti, delle tecnologie coinvolte.
Gli studi sui disastri, fino all’uscita del volume di Turner (ma anche successivamente e ancora ai nostri giorni), sono insufficienti [per comodità del lettore diamo qui una bibliografia di alcuni volumi e documenti sul tema]. L’attenzione è posta soprattutto sull’evento in sé, sui suoi effetti immediati e sui rimedi, sui sistemi di allerta e sulla loro efficacia nelle situazioni di potenziale pericolo. Inoltre, la distinzione fra disastri che avvengono in pochi istanti (
instantaneous) e disastri che si prolungano nel tempo (
progressive), e fra disastri circoscritti e disastri diffusi è utile come criterio di classificazione ma aggiunge poco alla comprensione delle dinamiche coinvolte.
Né mancano studi in cui si specula sul fatto che la società "abbia bisogno" dei disastri per "
superare tensioni interne e per trasformare l’ansia (impalpabile) in uno stato di paura (reale) di massa" su cui puntare per sollecitare interventi immediati e decisivi.
Turner affronta subito un tema cruciale sul quale spenderanno ben più che alcune considerazioni o qualche paragrafo: il problema dell’importanza dell’informazione e della comunicazione.
L’allarme per un pericolo, spiegano, può essere trattato come un pezzo di informazione. Per essere efficaci le allerte dovrebbero essere accurate e concise, chiare e credibili. E tuttavia, nonostante le informazioni, la percezione cambia se il pericolo che è stato previsto non si realizza per lungo tempo e se i segnali non possono essere captati in modo diretto. Come accade, nel primo caso, per i centri che sorgono in zone vulcaniche o ad alto rischio (di inondazioni, valanghe, sismico, …) nei quali si continua a costruire; e come lo è stato, nel secondo caso, per il ponte di Genova.
La novità di questo studio rispetto ai precedenti e la sua attualità sta nel fatto che, a partire dalla documentazione dei disastri maggiori (
vedi la NOTA a fine pagina), l’attenzione è rivolta alla fase che precede il disastro e a quegli aspetti comuni che insieme determinano le condizioni per il verificarsi dell’evento disastroso.
Illuminante è l’elenco degli elementi comuni che in genere precedono un disastro:
Primo elemento comune è la variabile "
disjunction of information": una situazione, complessa ma non infrequente, in cui i vari soggetti coinvolti sono incapaci di ottenere esattamente le stesse informazioni, con il risultato che esistono diverse interpretazioni dello stesso problema.
Altri elementi comuni sono la resistenza a dare ascolto alle percezioni immediate e la sfiducia negli organi istituzionali. È una questione di cultura ma anche di soggezione. L’incapacità di prestare attenzione e perfino di avere la percezione istintiva di un pericolo incombente non è solo un limite individuale. Si tratta di un atteggiamento comune indotto dall’insieme delle convinzioni e delle pratiche legate alle culture e sotto-culture dominanti. A questo proposito si legge testualmente:
Parte della efficacia delle organizzazioni [istituzioni, partiti, movimenti, associazioni, ecc… n.d.r.]
sta nel modo in cui, nell’affrontare un problema, esse sono capaci di mettere insieme un gran numero di persone imbevendole per un tempo sufficientemente lungo, con strategie che sono più o meno simili tra loro, con comportamenti esteriori più o meno uguali e priorità che si assomigliano tutte, in modo da renderle capaci di forti reazioni collettive che sarebbe impossibile ottenere se ad affrontare lo stesso problema fosse un gruppo di persone singole e non organizzate. Tuttavia, è proprio questo che porta con sé anche il pericolo di una cecità collettiva riguardo a istanze veramente importanti e il pericolo che alcuni fattori vitali possano essere lasciati fuori del perimetro della percezione collettiva così organizzata.
La tesi va ben oltre il tema dei disastri di ordine fisico-tecnologico o ambientali per allargarsi a quelli economici e sociali. È una nota attualissima che descrive lucidamente come oggi una cecità collettiva stia minando i principi stessi della democrazia, della legalità, della convivenza civile e del
ben essere generale, ponendo così ipoteche pesantissime su un futuro neanche troppo lontano. Una cecità che potrebbe risolversi in un autentico disastro in molto meno di un quinquennio.
C’è poi un altro fatto: si fa attenzione a qualche problema, da cui potrebbe derivare un pericolo, che si conosce bene e si sa come affrontare. Tuttavia questa conoscenza e questa sicurezza distolgono l’attenzione da altre situazioni molto critiche che sono sullo sfondo del problema. Accade quindi che anche quando c’è una risposta istituzionale e un determinato problema è bene identificato, c’è sempre la possibilità che ci siano altri problemi nascosti. Un certo modo di vedere è sempre anche un modo di
"non vedere", dice l’.
Altro fattore in gioco è una certa forma di chiusura. I suggerimenti che vengono dall’esterno delle organizzazioni preposte alla prevenzione dei disastri vengono di solito trascurati sulla base dell’assunto che sono solo queste organizzazioni ad avere la conoscenza e l’esperienza necessarie. Ciò è vero nella maggior parte dei casi, ma questo non toglie che nel sistema ci possano essere delle falle (
holes).
Accade sempre che problemi che non siano stati ben strutturati e contestualizzati portino a una difficoltà di informazione. Non necessariamente si arriva al disastro, ma se ne pongono le premesse. Quali le cause di questa difficoltà? L’assenza di una corretta e chiara strutturazione del problema induce una varietà di attori a interessarsene, ciascuno con una propria
teoria. Essi raccolgono informazioni diverse che sono coerenti con le loro teorie. Le informazioni risultano quindi frammentate e incomplete per via di questo limite culturale e perché nei vari passaggi e nell’attribuire loro la giusta rilevanza se ne perdono dei pezzi. In tali condizioni la distribuzione delle responsabilità risulta poco chiara, ambigua e sovrapposta. La parcellizzazione stagna delle idee influenza la raccolta delle informazioni e genera convinzioni diverse su come e quando intervenire sicché l’intera situazione risulta compromessa. Nell’ambiguità spesso si vengono a perdere le linee guida generali emanate dai vertici responsabili della sicurezza che sono considerate
punti di vista poco meno che
idealistici, motivo per cui i comportamenti non sono adeguati.
Altra fonte di problemi è il coinvolgimento di estranei, specie in situazioni complesse, perché la circolazione delle informazioni avviene all’interno di queste persone, a cui manca evidentemente la coesione del
gruppo. Molti di loro non solo non conoscono fino in fondo il problema, il sistema, l’organizzazione, la struttura, ecc… ma neanche ritengono necessario raccogliere tutte le informazioni di cui ci sarebbe bisogno. Inclusi i vizi collegati al design originario, quando accade che nel progettare i sistemi di prevenzione vi sono aspetti che poi si rivelano controproducenti (come accade, banalmente, per le uscite di sicurezza che non impediscono l’ingresso di estranei).
Inoltre, la non osservanza delle regole, la mancanza di misure che ricostituiscono gli standard di sicurezza in caso di un loro allentamento, la superficialità dei controlli, la mancanza di controlli sui controlli, portano quasi inevitabilmente al disastro.
Minimizzare un pericolo, mancare di vederlo o di rendersi conto della grandezza del possibile danno, sottostimare gli azzardi, cambiano la consapevolezza del pericolo, generano l’omissione di richiesta di aiuto, e quindi il disastro.
Ci sono testi, documenti, norme e raccomandazioni che riguardano i comportamenti da seguire dopo che un disastro è già avvenuto e si concentrano sulle cause immediate che lo hanno provocato, ma non trattano il disastro come quel problema su cui occorre intervenire prima che esso avvenga. È su questo aspetto che c’è molto da lavorare.
Un disastro è un evento limitato nel tempo e nello spazio, che impaurisce la comunità. In questa paura c’è il crollo della fiducia nelle precauzioni che fino al momento del disastro erano state considerate adeguate.
Ci sono sei stadi che segnano il divenire di un evento disastroso:
1. Uno stadio considerato
normale, in cui gli azzardi sono culturalmente accettati perché esistono norme di precauzione dettate da leggi, pratiche codificate o tradizioni popolari riconosciute.
2. C’è poi un periodo di incubazione in cui si verificano eventi anomali e disfunzioni. Per lo più essi vengono trascurati perché non solo per superarli ci si affida a norme codificate, ma anche perché esiste una diffusa resistenza psicologica a rifiutare la possibilità dell’evento disastroso. Il fatto che singoli e organizzazioni cerchino di mettere in guardia le comunità e i responsabili, viene in genere liquidato con il termine "
allarmismo".
3. Poi gli eventi precipitano, il disastro dilaga e la percezione generale cambia. C’è sorpresa e sconcerto.
4. A disastro avvenuto le conseguenze appaiono chiare. Subentra il crollo di tutte quelle sicurezze culturali su cui poggiavano le precauzioni e si diffonde un senso di smarrimento.
5. Subentra quindi la fase del salvataggio e del recupero: è la prima reazione dopo lo smarrimento.
6. Per ultima, lenta e difficile, c’è la fase del riadattamento culturale. "
Questo non deve accadere mai più". Convinzioni e norme precauzionali vengono modificate per adattarsi alle nuove conoscenze e a un diverso modo di intendere il mondo circostante.
Il periodo dell’incubazione è indubbiamente, quello più importante perché anche se molti disastri hanno origine nel periodo precedente con la violazione delle norme di sicurezza, spesso tali violazioni avvengono perché le norme sono considerate inadeguate o non più attuali. È in questa fase che si verificano le omissioni che portano poi al disastro.
Le ragioni sono molteplici.
Alcuni eventi premonitori sono trascurati a causa di convinzioni sbagliate. «
Ogni unità organizzata, o che dipenda da questa, sviluppa una sua sottocultura e propri standard di razionalità», dice l’ del libro. La presunta razionalità è solo il risultato della particolare sottocultura di un determinato gruppo. Siamo chiaramente di fronte al fenomeno già citato della presunzione di conoscenza, della rigidità e della chiusura mentale.
Accade anche che la poca attenzione agli eventi premonitori dipenda da un’obiettiva difficoltà nel dare/ottenere informazioni quando il quadro è complesso, la situazione è difficile da affrontare, la conoscenza complessiva è vaga; se intervengono estranei e ci sono aspetti e temi diversi che coinvolgono un gran numero di attori. Esempi di tale complessità sono tutte quelle situazioni in cui la tutela dell’ambiente si incrocia con quella del lavoro e con le ragioni dell’economia e del benessere collettivo.
Banalmente (e tragicamente) avviene poi che gli eventi premonitori siano trascurati perché non si è a conoscenza della esistenza di norme di sicurezza.
Spesso si verifica anche che il non rispetto delle norme di sicurezza dipenda da una istintiva riluttanza a immaginare che possa accadere il peggio.
Incidenti e disastri sono l’effetto e la causa dello sconvolgimento di un ordine che, proiettandosi nel futuro, tenta di anticiparlo. A questo punto l’analisi dei disastri valica i confini dell’osservazione per entrare nella sfera della speculazione filosofico-culturale.
Gli esseri viventi agiscono secondo criteri che hanno uno scopo specifico. La materia vivente, a differenza di quella inerte, si comporta in modo da tendere verso la
negentropy (negazione della entropia), che è lo stato dell’
ordine, l’opposto cioè della
entropia, lo stato del
disordine.
Non basta però la volontà di agire con criterio. La gente non si muove mai a vuoto. Il raggiungimento degli scopi va perseguito nell’ambiente in cui ci troviamo. Il successo o il fallimento dipendono in gran parte da quanto l’ambiente è in sintonia con i nostri scopi. Non è necessario conoscere il mondo circostante in modo perfetto e completo per poter agire e operare su di esso secondo i nostri disegni. Tutto ciò di cui c’è bisogno è una conoscenza abbastanza accurata (anche se non possiamo mai dire con assoluta certezza se lo sia o no fino a dopo l’evento). Gli umani operano sulla base di piani e modelli che strutturano le conoscenze disponibili e guidano l’acquisizione di nuove informazioni. Non esiste né mai esisterà una soluzione definitiva al problema di stabilire qual è il livello di conoscenza necessario per arrivare allo scopo che, nel caso dei disastri più gravi, è essenzialmente quello della sopravvivenza.
Tutti i piani, i modelli e altre forme di conoscenza si basano sull’assunto che sono rilevanti le informazioni che riguardano alcune parti dell’ambiente, altre che riguardano altre parti si possono ignorare. Accade però che cambiamenti non trascurabili dell’ambiente possono vanificare l’utilità dei piani e dei modelli esistenti. È nella discrepanza fra come si crede che il mondo sia e come invece esso è realmente, che si trova l’origine prima, il
seme dei disastri.
Infine, qual è il ruolo della razionalità in tutto questo? È fuori di dubbio che una pianificazione razionale sia necessaria. Rendere tutto più prevedibile con dei modelli e amministrare in maniera oculata le risorse rende tutto più facile. Ma la sola organizzazione delle risorse e la conoscenza razionale non garantiscono il successo, anzi una fiducia eccessiva e poco critica nella razionalità può essere fuorviante. In altri termini, nella valutazione del pericolo occorre una notevole dose di umiltà che consiste nella capacità di non dare mai nulla per scontato ed essere sempre vigili.
Esiste una distinzione fra razionalità funzionale e razionalità sostanziale (Mannheim). Quella funzionale si trova spesso nelle organizzazioni nelle quali hanno un ruolo molti protagonisti. La divisione del lavoro e delle responsabilità potrebbe portare al fatto che ci si aspetti che solo pochi che si trovano in posizioni di vertice abbiano la responsabilità di pensare in modo intelligente e in maniera autonoma. L’incapacità o la non volontà di coloro che sono impiegati in lavori di routine di porsi domande sulla logica dell’intero sistema possono condurre al disastro.
Anche i comportamenti razionali hanno dei limiti. Una grande organizzazione con una enorme razionalità funzionale non garantisce una razionalità sostanziale. È bene pertanto avere una posizione critica verso i modelli che le organizzazioni usano per guidare le loro azioni. Questo atteggiamento critico può aiutare a trasformare la razionalità da funzionale a sostanziale e aiutare a prevenire i disastri.
In teoria il
raggio della previsione dovrebbe superare il
raggio dell’azione, cosa che accade raramente per mancanza di conoscenze su molti aspetti del sistema. Così dai nostri progetti razionali emergono pertanto conseguenze impreviste, anche perché di solito non si pianifica per "
il meglio" e "
il massimo" ma solo quanto basta perché sia "
sufficiente", "
accettabile", "
abbastanza buono" (teoria della
razionalità limitata di Herbert Simon).
Si esaurisce così l’analisi del testo in esame.
La tragedia del ponte di Genova rimane. Così come indubbiamente rimangono la tempestività dei primi interventi in fatto di soccorso e recupero. Rimane la generosità dei nostri migliori esponenti: dai cittadini comuni, ai vigili del fuoco, alla protezione civile. La ricerca delle responsabilità (e non dei capri espiatori) sarà cosa difficile, oltremodo complessa, come questo studio ci indica. Intanto, mentre si cerca di organizzare il presente, occorre pensare lucidamente al futuro. Per questo il gesto di Renzo Piano, con il suo "dono" del progetto di un nuovo ponte alla città assume il valore simbolico di una intera grande comunità che è impegnata a risorgere. Nonostante tutto.
NOTA
Il libro riporta in appendice la lista degli 84 incidenti e disastri, pubblicati dal Governo Britannico, che sono avvenuti fra il 1 gennaio 1965 e il 31 dicembre 1975. Sullo studio di questi dossier ufficiali sono state elaborate le tesi sostenute nel testo.