L’edizione 2018 del premio Strega, il più prestigioso in Italia, dedicato a scrittori italiani, è in fondo un omaggio al coraggio.
Il coraggio di una storica casa editrice, la Guanda che, nata nel 1936 e avversata dal regime fascista per le sue scelte letterarie, è riuscita a continuare la “mission” mantenendo la sua identità nel mondo dell’editoria senza venirne schiacciata. Questo del 2018 è primo Strega conquistato dalla casa editrice.
Il coraggio di una scrittrice, Helena Janeczek, tedesca naturalizzata italiana, di origini ebreo-polacche, che ci ha regalato pagine splendide. Pagine di storia personale in “Lezioni di tenebra” è il romanzo autobiografico dedicato alla madre, sopravvissuta di Auschwitz. Racconti di guerra: nelle “Rondini di Montecassino” narra degli stranieri polacchi, pachistani e di altre nazionalità poco conosciute che insieme agli italiani hanno vissuto la tragedia di quella battaglia. Pagine, nel “Cibo”, intrise di sottile, amara ironia che nell’ultima parte, “Quasi un epilogo morale” sulla prima vittima della malattia di Creutzfeldt-Jakob, la “mucca pazza” (divenuto per il Saggiatore “Bloody caw”, una pubblicazione a sé stante), si trasforma in tragedia dai contorni asciutti e disperati.
Ed ora questo lavoro che le è valso il premio Strega 2018, “La ragazza con la Leica”.
Il coraggio della prima fotografa di guerra, Gerda Taro, la ragazza affascinante e appassionata, la rivoluzionaria antifascista spregiudicata e senza paura protagonista di questa biografia romanzata.
Helena Janeczek rivela di avere raccolto per questo libro documenti, foto e notizie per oltre sei anni. Un’attenzione, quindi, che prima di essere quella di un’artista per la sua opera è quella di una donna per un’altra donna di cui ammira la forza, la libertà, l’indipendenza, la passione. La storia della vita breve e intensa della prima fotogiornalista di guerra, morta nel 1937 a soli 26 anni in un incidente, travolta dai cingolati di un carro armato amico durante la guerra civile spagnola.
La vera storia di Gerda Taro (Gerta Pohorylle) come fotografa di guerra è legata, probabilmente, al misterioso ritrovamento di una valigia piena di ben 126 rullini di negativi (4.300 fotografie) di cui 32 si ritiene siano stati scattati da Gerda.
Quando nell’ottobre del 1939 Endre Ernö Friedmann (il fotografo, amico e compagno della Pohorylle, per il quale la donna creò il personaggio Robert Capa, inventando per sé quello di Gerda Taro: un modo intelligente e spregiudicato per piazzare le loro foto facendole passare per quelle di un famoso e ricco fotografo americano, Robert Capa, una pura invenzione) si imbarcò per New York per sfuggire alle persecuzioni naziste - lui ebreo di origine ungherese, militante antifascista e vicino ai comunisti - chiese al suo amico fotografo Csiki Weisz, anch’egli ebreo ungherese, di raccogliere le pellicole nel suo studio di Parigi e di porle in salvo. Questi, durante i giorni dell’occupazione nazista, per salvare i negativi degli amici fotografi ebrei e “comunisti” Robert Capa, Gerda Taro e Dawid Szymin (David Seymour “Chim”) di origine polacca, riempie frettolosamente di negativi una valigia - si tratta in realtà di tre cartoni infilati in una sacca - che porta con sé in bicicletta dirigendosi a Sud verso Bordeaux, per imbarcarsi e fuggire in Messico.
Durante la strada, per timore di essere preso, affida a un cileno di passaggio la valigetta chiedendogli di portarla al suo consolato (è lo stesso Csiki a rivelarlo in una lettera del luglio 1975 a Cornell Capa, fratello di Robert). Csiki viene infatti arrestato e finisce in un campo di concentramento in Marocco ma riesce a sopravvivere. È da allora che si perdono le tracce della valigia che verrà poi ritrovata nell’appartamento di Città del Messico del generale Francisco Aguilar Gonzales, ambasciatore del Messico presso il governo di Vichy.
Nel 1979 Cornell Capa lancia un appello per ritrovare le fotografie perdute del fratello. Qualcuno risponde all’appello consegnando alcune fotografie. Ma non queste. Le foto rispuntano nel 1995: sono in possesso di Benjamin Traver, un produttore cinematografico messicano che le ha ricevute in eredità da una sua zia molto amica del generale. Da allora sono in molti a tentare di convincere Traver a rendere pubblico questo patrimonio, senza riuscirci.
La storia fortunosa delle pellicole, del ritrovamento e poi del loro arrivo altrettanto travagliato e fortunoso all’International Center of Photography di New York (nel 2007) è l’oggetto di un film “La valigia messicana” del 2011, per la regia di Trisha Ziff. È stata lei, la regista del film, curatrice di esposizioni fotografiche e film maker, che è riuscita a convincere Traver a consegnare questo patrimonio all’ICP.
Le foto della “valigia messicana” gettano una nuova luce sulla Taro, che fino ad allora era stata ritenuta solo la compagna di Capa, una figura di secondo piano che da lui aveva imparato “qualcosa” di fotografia. Gli scatti di Gerda sono ben più di “qualcosa”: con Capa e Seymour la Taro è fra i più famosi fotografi del XX secolo, quelli che hanno inventato i codici del fotogiornalismo di guerra.
Sono giovani, appassionati, convinti che valga la pena rischiare la vita per una foto, perché una foto può cambiare le sorti della guerra, della Storia, della verità. Le foto ritrovate costituiscono un documento prezioso per l’evoluzione della fotografia e del fotogiornalismo di guerra e sono un importante documento storico che racconta gli anni della guerra civile spagnola (luglio 1936-aprile 1939), quelli in cui in Spagna si cercò di fermare la diffusione del fascismo nel resto del mondo. Sono la prova della loro coerenza, giacché tutti e tre sono morti con la macchina fotografica attaccata al collo: la Taro in un incidente al termine di un reportage sulla battaglia di Brunete (1937), Capa saltando su una mina antiuomo in Indonesia (1954), Seymour ucciso in Egitto, mentre documentava la crisi di Suez (1956).
Le foto della Taro segnano una progressiva commossa partecipazione alle vicende di guerra e ai drammi che genera. La sua scelta è politica, la fotografa è un’antifascista che sente l’urgenza di essere testimone solidale: sta quindi dalla parte delle vittime, delle città distrutte, dei rifugiati. Oltre alla pressione della stampa di sinistra per la quale lavora, oltre al desiderio di essere in prima linea che la porta ad uno sprezzo del pericolo fino a rischiare la vita, c’è nei suoi scatti una partecipazione personale che la riscatta da ogni forma di esibizionismo.
Nel libro “La ragazza con la Leica” la narrazione biografica non è lineare. Essa si svolge su tre piani diversi, attraverso ricordi e testimonianze che si intersecano e si fondono. Quella di Willy Chardack, innamorato non corrisposto di Gerda. Quella di Ruth Cerf, l’amica. Quella di Georg Kuritzkes il fidanzato della ragazza prima che questa incontrasse Capa.
Lo stile narrativo segue il via vai altalenante dei ricordi che si susseguono, si intersecano e sfocano in dissolvenze temporali che rievocano sensazioni di luce, suoni e profumi. Non ci sono confini netti fra il presente assorto e perduto nell’inseguire la memoria e gli umori del passato. La lucidità e immediatezza del ricordo affiora con tale cristallina limpidezza da sfumare i contorni del presente. Il lettore diventa protagonista di questo gioco narrativo restandone coinvolto e affascinato.
Perché Gerba Taro? Perché è il ritratto di una donna forte, libera, intraprendente e capace. Una donna vera, di quelle che ogni uomo vorrebbe incontrare e di cui molti hanno, forse, paura.
«Ho capito che Gerda è un personaggio così forte perché passa come una stella cometa nelle vite degli amici e degli amanti; e sono gli sguardi degli altri che ne restituiscono tutta la luminescenza, tutta l’energia inafferrabile. Questa donna sapeva tirare fuori il meglio dagli altri, come accade quando ti innamori e provi energie nuove, ti senti potenziato…», dice la scrittrice in un’intervista.
«Era fatta così, era volubile e volitiva, un metro e mezzo di orgoglio e ambizione, senza i tacchi. Bisognava prenderla com’era: sincera fino a far male, affezionata a modo suo, sulla lunga durata» scrive nel libro.
“La ragazza con la Leica” è uscito a settembre 2017. Da allora i commenti si sono susseguiti in un crescendo di consensi. Il premio Strega assegnato alla Janeczek altro non è che il riconoscimento ufficiale di questi consensi.