Commento a una relazione di Giuseppe De Rita
Censis - UN MESE DI SOCIALE - Roma 6/06/2018
"... un'iniziativa di metà anno per discutere e approfondire i temi della società italiana"
Governo e governare. Stessa la radice lessicale, diverso il significato.
Dice Giuseppe De Rita:
«Quando l’attenzione collettiva si accentra sul “governo” (con chi farlo, come farlo, quando farlo), è difficile che ci sia spazio per uno sguardo, pur fuggitivo, sul “governare” (con quali indirizzi, con quali processi, con quali strumenti). L’urgenza della cronaca e degli eventi quotidiani spinge a pensare: “prima facciamo il governo, poi penseremo a governare”. È il pensiero che ha dominato i primi mesi di questo 2018».
Ben al di là degli slogan che abbiamo sentito e continuiamo a sentir ripetere fino alla nausea per la loro banalità e genericità, nel suo intervento del 6 giugno scorso al Censis, che riportiamo integralmente in archivio, il Prof. De Rita spiega:
«Cosa significa oggi imparare a governare?
Se si supera la naturale resistenza al termine “imparare” da parte di coloro che esercitano il potere e che propendono a far prevalere il comandare sul governare, allora si può pianamente dire che per governare occorre:
- avere una visione e una cultura della “lunga durata”
- provvedere ad un incardinamento della politica nei processi reali in corso;
- elaborare una strategia di coinvolgimento dei tanti e sempre più articolati soggetti sociali».
È in quel termine della lunga durata che risiedono tutte le contraddizioni che il nostro paese sta attraversando.
Siamo schiacciati sul presente, anzi sull’immediato, anzi sul filo del web dove tutto passa alla velocità della luce.
De Rita parla di presentismo che definisce come “appiattimento dell’oggi senza alcuna scansione di passato e di futuro” e di “affanno del consenso” che induce a “programmi di potenziale rapida attuazione. Mentre, il governare la lunga durata prevede una pianificazione accurata, obiettivi precisi, capacità di trovare equilibri delicati e difficili all’interno – come quelli fra libertà e responsabilità, fra sicurezza e diritti, fra spese, entrate e bilancio – ed equilibri nella comunità internazionale.
Per spiegare che cosa significhi nel concreto “governare la lunga durata”, De Rita spiega alcuni imprescindibili condizioni che chiama “opzioni fondamentali” che qui proviamo ad elencare:
- operare sintesi fra continuità e discontinuità, fra tradizione e innovazione, fra stabilità e cambiamento, sia quando si opera in condizioni di “normalità”, sia quando ci si trova in situazioni contingenti o di straordinarietà (inclusa quella elettorale);
- trovare quell’equilibrio fra forze sociali e forze politiche che sia capace di garantire libertà, rispetto dei diritti (in primis quelli della persona) e sicurezza;
- esplicitare con chiarezza il consesso internazionale a cui il paese appartiene.
Occorre prendere atto, dice De Rita, dei nuovi grandi processi socio-economici che stanno crescendo rapidamente. È in atto un sempre maggiore protagonismo di molteplici soggetti collettivi diversi (imprese, società, associazioni, movimenti, gruppi di interesse specifico) sia singolarmente sia, sempre di più, organizzati in filiere che ha come obiettivo il “ben essere” e la crescita è un processo che va protetto e aiutato a svilupparsi attraverso forme di organizzazione intermedia pena lo scadimento di questa partecipazione dinamica “in formule confuse come la democrazia diretta, la mobilitazione del web, le elezioni primarie”.
Siamo un paese senza establishment, quel corpo intermedio di “intellettuali, tecnici ed esperti capaci di fare insieme previsione del futuro e quotidiano back-office per la decifrazione dei problemi e dei poteri quotidianamente in giuoco”, che occupano i vertici delle amministrazioni e sono i veri motori di un paese moderno. Alti burocrati capaci di comprendere e guidare sistemi complessi. Questa classe dirigente è stata svuotata del suo valore e della sue competenze (spesso per scelte politiche scellerate n.d.r.), anche a seguito di campagne giornalistiche che hanno mirato a dequalificare in blocco il sistema con il termine ‘casta’*, “un’espressione avulsa da ogni valutazione di merito o di funzione, ma facile da ricondurre a eventuali privilegi”.
Il rifiuto della intermediazione e l’ “inedito entusiasmo” per la democrazia diretta con il non riconoscimento dei valori dell’esperienza e della conoscenza al grido di uno vale uno hanno svuotato di significato la democrazia rappresentativa, depositaria dei delicati equilibri statuali, spingendo l’acceleratore su un populismo che si manifesta in forme di “rapporto diretto fra un vertice sempre più stretto e una moltitudine sempre più indistinta”.
Sono venute a mancare le sedi in cui si costruisce il progetto per il futuro del paese e con queste gli strumenti del costruire. L’inesperienza è diventata un valore e l’incapacità una conseguenza accettata e giustificata.
“Non siamo messi bene – dice De Rita - e rischiamo una ulteriore confusione socio-politica se non si arriva a costruire, pezzo a pezzo (e con pezzi nuovi), un ‘fondale’ di presenza culturale e di responsabilità collettiva per quegli strati di società che hanno cultura dello sviluppo e sono esperti della complessa macchina del governare. Verrebbe da dire: «aridateci una casta», se non sapessimo che scenderebbero in campo decine di protagonisti dell’anti-casta; meglio, senza polemiche, cominciare a capire dove e come ricostruire brandelli di cultura di élite e di sedi di mediazione socio-politica”.
De Rita individua tre percorsi:
a. “prepararsi a vivere con cultura alta le grandi sfide che ci vengono imposte dai processi di globalizzazione e dai poteri sovranazionali, e che viviamo in condizioni di sostanziale passività […]”
b. ripercorrere le appartenenze collettive in cui possono crescere germi di nuova classe dirigente, di responsabilità di sistema. Appartenenza, spiega, a ideologie, a partiti di massa, a correnti “intellettuali, programmatiche, organizzative, di potere”, ai grandi soggetti di rappresentanza (industriale, sindacale, scolastica, ambientalista, …), a cerchie anche più piccole, capaci però di “stabilire sistemi di relazioni umane, professionali, di avanzamento sociale”
c. partire dai territori.
Nel rapporto fra politica e società - tradizionalmente intesa la prima come motore della seconda - De Rita propone un capovolgimento dei termini osservando che sempre più pressante “è la realtà sociale ad imporre un’attenzione politica ed economica alle proprie tensioni e alla sua dialettica. […]Il sociale sembra il vero motore dell’economia italiana di questi anni, con un conseguente impasto di imperativi etici, di pauperismo e di diffuso rancore, che ha finito per condizionare la stessa vicenda politica. Il problema è che questa primazia del sociale è oggi in uno stato troppo indistinto per non essere un po’ confusa, praticamente senza grandi assunzioni di responsabilità: un sociale indistinto, pieno di istanze diverse e spesso pressanti, che attiva e impone un’attenzione politica, con impegni d’intervento pubblico conseguentemente a pioggia, finisce per creare un mondo senza responsabilità”.
Il problema è che questo grande e variopinto mondo è troppo fluido, non ha identità autonoma tale da influire sul sistema, è difficile coagularlo, se non proprio in un soggetto politico, almeno in un’azione politica.
Per esempio, “il terzo settore oggi è un campo di fili d’erba che faticosamente genera qualche cespuglio, ma non una chiara soggettualità politica e quindi una chiara assunzione di responsabilità nella gestione del raccordo fra dinamica sociale, dinamica politica e dinamica economica”.
Altro esempio è il welfare. A quello che una volta era il welfare state, organizzato in forma unitaria, è oggi parcellizzato in welfare aziendale, welfare comunitario, in cui parte rilevantissima per impegno economico hanno tutte le forme di assistenza domiciliare, il welfare integrativo, il welfare categoriale, il welfare personalizzato, con il suo peso sulla gestione del risparmio e della ricchezza patrimoniale di singoli e famiglie. Crescita e diversificazione che hanno lasciato innumerevoli opportunità di inserimento ad una miriade di operatori privati, con il traino di un pezzo considerevole dell’economia, dai quali non si può prescindere, qualsiasi sia il progetto di riforma del welfare di stato.
L’esito del voto del 4 marzo è conseguenza di una forte richiesta di cambiamento ma, si chiede De Rita, la formazione del governo, la sua composizione e il programma sono davvero il segno di una forte discontinuità politica o non sono piuttosto, ancora una volta, “i segni di un’attrazione demoniaca al continuismo, inteso come progressivo italico adattamento al nuovo, anche il più radicale?” De Rita, da esperto e consumato sociologo, ha analizzato “a tal fine i comportamenti delle forze in campo, il programma di governo faticosamente messo insieme e la composizione del governo stesso”.
Allora, cosa ha scoperto?
Quanto ai comportamenti, riandando anche a memorie personali, ha ricordato che le villanate - anche istituzionali precisa De Rita - e i “comportamenti di voluta, sottolineata, aggressiva, gridata, rozza alterigia” dei vincitori “hanno ricalcato una schiera pluridecennale di comportamenti maleducati assunti a strumenti politici”.
Quanto al metodo della stesura del programma, affidato a “molti e fotografati gruppi di giovani incaricati di rimettere su carta le forti dichiarazioni della campagna elettorale e di farne delle intenzioni e degli impegni di governo”, non è diverso da ciò che si faceva fin dagli anni ’ 50 e ’ 60 con i giovani ricercatori dello Svimez e dell’Iri ai quali veniva affidata la stesura dei capitoli del programma politico. Erano testi, allora come ora, segnati “da indicazioni di massima, da volenterose intenzioni, da prudenti ambivalenze, da furbi scivoloni nel generico”.
Anche nella composizione della classe di governo “l’incoerenza fra il break duro delle elezioni e le paludose vicende della formazione del nuovo governo non potrebbe essere maggiore”.
Da un lato c’è l’esclusione radicale di ogni esperienza tecnica e politica, - secondo uno ‘spoil system’ di lontana memoria -, la contestazione e l’insofferenza delle regole, sia esterne che interne, rivendicata con il primato della politica; il perseguimento della “morte del potere di quell’ambiente trasversale (fatto di amministratori, funzionari, banchieri, industriali, intellettuali) che ci si è abituati a definire sprezzantemente establishment o addirittura casta”.
Dall’altro questa volontà di cambiamento “contro i tecnici, le istituzioni europee, l’alta burocrazia, l’establishment” non ha prodotto una classe dirigente alternativa. “Occorre aspettare: che crescano le capacità tecnico-politiche dei giovani redattori del programma; che qualche segmento di alta burocrazia si allinei ai nuovi potenti con un più o meno interessato trasformismo; che le schiere di possessori di spendenti curriculum imparino a maneggiare il potere economico e amministrativo; che la qualità di chi vuole governare venga certificata dalla dinamica delle cose, più che nelle ambizioni e in isolate dichiarazioni personali”.
E intanto la società rimane “sospesa”, affidandosi per l’ordinaria amministrazione alla classe dirigente che c’è.
De Rita, a partire dalla sua pluridecennale esperienza, osserva che “il sistema italiano esprime sempre una sua capacità di adattamento, una sua elasticità di comportamento, se vogliamo anche una sua realistica e magari codarda dose di trasformismo”. E conclude che la “saga storica del Terza Repubblica” altro non è che un tanto chiasso per nulla, un cambiare tutto perché tutto rimanga lo stesso, un continuismo svuotato dei valori della continuità propri della cultura e della esperienza.
Il Presidente del Censis si pone e ci pone questa domanda drammatica: “siamo sicuri che il continuismo non porti, silenziosamente, ad una progressiva mediocrità del sistema?”, precisando non senza un richiamo finale alla speranza: “Sono abbastanza sincero per dire che vedo anch’io il nesso fra continuismo e progressiva sistemica mediocrità sono abbastanza cinico per dire che il continuismo è mediocre se la discontinuità è delirante; e sono abbastanza un professionista per non capire che la situazione di oggi rivela, non solo una mediocrità politica, ma anche e specialmente una speculare mediocrità di tutto il corpo sociale. È lo spazio di lavoro del prossimo futuro”.