Indice
1. Discontinuità politica e variabili fondamentali del governare
2. Rifare establishment
3. Il sociale che traina l’economia
4. Riflessioni di un continuista in un periodo di “tutt’altro”
1. Discontinuità politica e variabili fondamentali del governare
Quando l’attenzione collettiva si accentra sul “governo” (con chi farlo, come farlo, quando farlo), è difficile che ci sia spazio per uno sguardo, pur fuggitivo, sul “governare” (con quali indirizzi, con quali processi, con quali strumenti). L’urgenza della cronaca e degli eventi quotidiani spinge a pensare: “prima facciamo il governo, poi penseremo a governare”.
È il pensiero che ha dominato i primi mesi di questo 2018; e non si può dire che, nella discontinuità politica di un anno elettorale, sia stato un pensiero incoerente. È però sperabile che l’enfasi dedicata al fare il governo abbia solo rinviato l’impegno a pensare come governare, perché sarà difficilissimo passare subito ad impegni precisi, vista l’ambiguità dei programmi e delle promesse su cui è stata costruita l’ultima campagna elettorale.
Non è tempo perso, quindi, avviare una riflessione sulle variabili fondamentali su cui governare il Paese, una riflessione che può essere utile per il lavoro politico da mettere in cantiere sia sugli obiettivi e sugli impegni dell’attuale legislatura, sia sulle proposte per eventuali possibili nuove elezioni, sia sulla possibile ripresa di un primato della politica come orientamento e guida dello sviluppo del sistema.
Cosa significa oggi imparare a governare? Se si supera la naturale resistenza al termine “imparare” da parte di coloro che esercitano il potere e che propendono a far prevalere il comandare sul governare, allora si può pianamente dire che per governare occorre:
- avere una visione e una cultura della “lunga durata”;
- provvedere ad un incardinamento della politica nei processi reali in corso;
- elaborare una strategia di coinvolgimento dei tanti e sempre più articolati soggetti sociali. Può apparire quasi provocatorio parlare di una cultura della lunga durata in una società, come l’attuale, dove domina il presentismo (l’appiattimento all’oggi senza alcuna scansione di passato e di futuro); dove vince la cronaca quotidiana e i sentimenti da essa provocati; dove domina una diversa propensione alla immediatezza anche mediatica di idee e proposte; dove l’affanno per il consenso induce a programmi di potenziale rapida attuazione.
Ma cosa significa “governare la lunga durata”, senza cadere nei richiami troppo generici alle costanti storiche della nostra società? Significa, semplicemente, operare alcune opzioni fondamentali:
- gestire il necessario continuo assestamento fra continuità e discontinuità nelle contingenze strutturali o congiunturali (o magari elettorali) che si susseguono nel tempo. L’Italia è un Paese continuista per eccellenza ed occorre rivendicare tale continuità; ma una prudente gestione anche della discontinuità può risultare utile per non dare spazio alla tentazione di pochi frustrati ad esasperare la propria posizione;
- c’è da trovare equilibrio fra le forze sociali e politiche che fanno riferimento ad una opzione sistemica di “libertà” (con ampio spazio alla crescita dei vari soggetti) e quelle che reclamano attenzione ai valori di “sicurezza” per rispondere alle crescenti ansie collettive. L’attenzione circolante oggi per sistemi politici più securizzanti (magari a scapito delle regole tradizionali dello Stato di diritto) è un fenomeno che non si può sottovalutare, ascrivendolo a puro tatticismo di posizionamento;
- e occorre esplicitare un chiarimento delle grandi opzioni di appartenenza internazionale, finora solidamente ancorate al mondo occidentale e capitalistico, magari superando la non meravigliosa congiuntura di leadership che quel mondo sta attraversando.
Accanto a queste grandi opzioni di lunga durata, l’impegno a governare comporta anche di prendere atto della forza dei processi socio-economici che sono oggi in poderosa crescita:
- il processo di quasi continua proliferazione dei soggetti attivi dello sviluppo: un fenomeno così intenso da far pensare che abbia ragione Alain Touraine quando dice che la politica futura va disegnata tenendo conto solo dei soggetti semplici. Ma restano ancora in campo soggetti intermedi e di vertice (statuali, di impresa, di potere finanziario, ecc.) che vanno resettati, perché il loro costo di intermediazione di fatto crea problemi gravi alla vitalità dei soggetti semplici;
- i processi di formazione di quelle filiere e di quelle piattaforme che stanno sotto la nostra competitività sui mercati internazionali, dove c’è di fatto una forte presenza delle singole imprese, ma dove è dominante il fenomeno collettivo della filiera appunto. Se è vero che l’Italia è nei primi posti nei quattro mercati che governano l’economia mondiale (quello del lusso, con il nostro tradizionale made in Italy; quello eno-gastronomico; quello della fabbricazione dei macchinari industriali e dei loro ricambi; quello del turismo), è facile rimarcare che ciò è dovuto alla dinamica delle relative filiere e dalla loro capacità di garantire una sempre più complessa vitalità alle nostre imprese medie e piccole. Non c’è politica industriale che tenga, non c’è promozione e sostegno alle singole imprese che regga, la vera forza italiana è quella delle filiere;
- il processo di crescente residualità della funzione e del potere dello Stato. Questo non è più quel “soggetto generale dello sviluppo” per decenni considerato essenziale; al contrario, tutti i processi reali in corso stanno sempre più marginalizzando il ruolo dello Stato. In particolare, una tale evoluzione risulta evidente nel settore dei bisogni e degli interventi sociali ormai così personalizzati e spesso anche monetizzati, al punto da imporre una revisione profonda del tradizionale welfare state alla luce delle nuove responsabilità (welfare aziendale, comunitario, mutualistico, assicurativo, ecc.) che si vanno affermando.
Uno sviluppo di lunga durata e incardinato nei processi reali impone un terzo impegno del governare: rilanciare la partecipazione sociale e politica coinvolgendo i sempre più numerosi soggetti (individuali e collettivi) che operano nello sviluppo italiano.
È certa la crisi attuale della dinamica della partecipazione: i soggetti tradizionali di coesione e mobilitazione collettiva (il sindacato, il partito, il localismo, la stessa impresa) sono oggi fuori giuoco, ma non sono stati sostituiti, se non si vuole far passare per partecipazione socio-politica formule confuse come la democrazia diretta, la mobilitazione del web, le elezioni primarie; ed essendo in più pericolosamente inclini a verticalizzare il potere, più che a renderlo collettivamente partecipato.
Occorre allora sperimentare nuove forze di aggregazione intermedia, magari nelle filiere economiche, con evidenti interessi convergenti; magari nelle piattaforme di servizio, in cui i singoli possono ritrovare informazioni e difesa dei propri problemi; magari nello sviluppo ordinato dell’utilizzo dei social media; e magari anche (perché no?) in un rinnovato impegno della politica a ragionare sulla composizione sociale del Paese. Al contrario di quanto avvenuto nell’ultimo decennio, in cui la politica ‒ che pure l’aveva promossa ‒ si è disinteressata della crisi della cetomedizzazione del Paese, e ne ha pagato il prezzo con una caduta del consenso proprio dei ceti medi lasciati alle loro incertezze, paure, frustrazioni e rancori, che poi tanto hanno caratterizzato le vicende anche elettorali dei tempi più recenti.
Il processo di partecipazione si è anchilosato quasi violentemente (è la teoria della disintermediazione) e ciò ha avuto e sta avendo effetto sulla dialettica democratica del sistema, sull’impoverimento della nostra classe dirigente, sulla stessa capacità di fronteggiare tentazioni populiste di massa.
2. Rifare establishment
È esperienza corrente degli Stati moderni che l’esercizio di governo faccia riferimento ad un establishment, cioè ad un nucleo di intellettuali, tecnici ed esperti capaci di fare insieme previsione del futuro e quotidiano back-office per la decifrazione dei problemi e dei poteri quotidianamente in giuoco. Magari in altre parti del mondo si può pensare che per governare basti esercitare il comando e il potere senza farsi prendere dalla complessità dei problemi; ma a lungo andare una tale scelta porta involuzioni e distorsioni, perché senza un establishment la politica si riduce alla pura ricerca e gestione del consenso.
Quel che è avvenuto in Italia negli ultimi anni va in una direzione opposta. Quel po’ di establishment che avevamo ereditato nel tempo (nel bene e nel male) è stato raso al suolo: la fascia alta della burocrazia statale è stata resa debole e dipendente, con una delegittimazione che ha comportato anche il crollo della reputazione; quel po’ di guida strategica del potere statuale che si era sviluppata nella tecnocrazia della pianificazione e della gestione dei grandi interventi pubblici (dalla Cassa per il Mezzogiorno al Piano Vanoni) è stata vista come un potere, se non occulto, certo estraneo ai meccanismi del consenso collettivo; i grandi uffici studi degli anni ’50 e ’60 (Banca d’Italia, Iri, Svimez, Eni, ecc.) non ci sono più o sono diventati marginali anche rispetto al core business dei gruppi in cui erano nati e cresciuti; le grandi centrali di rappresentanza (Confindustria, Abi, sindacati), che pure hanno per decenni lavorato a delineare uno sviluppo complessivo del Paese, si sono progressivamente messe in disparte, scegliendo una più comoda funzione di controllo dei vari interventi pubblici; mentre i mitici poteri forti, cui qualcuno per anni ha attribuito la capacità di manovrare a loro piacimento contenuti e strumenti decisionali, sono retrocessi a piccole consorterie e lobby di interessi, lontano comunque da disegni e interessi collettivi. In sintesi, dietro le ambizioni e le volontà politiche esiste oggi un vuoto di input tecnicopolitici e di riflessione socio-politica, cui non supplisce di certo l’utilizzo random di qualche accademico.
Siamo quindi un Paese senza establishment, e ne paghiamo lo scotto, specie quando incrociamo la dialettica o il conflitto con sistemi decisionali (si pensi ai maggiori partner dell’Ue) che hanno ben altra consistenza e forza dell’alta amministrazione, delle élite tecnocratiche, delle grandi centrali datoriali e sindacali, dei grandi uffici studi, delle stesse più o meno compatte organizzazioni di lobby.
Ma non bastava la tendenziale propensione a fare a meno dell’establishment, abbiamo voluto fare un ulteriore sforzo di sua delegittimazione:
- abbiamo sviluppato, prima per via giornalistica e poi con mirate campagne politiche, una connessione dell’establishment con il termine “casta”, un’espressione avulsa da ogni valutazione di merito o di funzione, ma facile da ricondurre a eventuali privilegi;
- ci siamo lanciati nell’epopea della disintermediazione, con l’obiettivo primario di evitare che una qualche struttura intermedia esercitasse un continuo confronto fra problemi reali e intervento pubblico;
- abbiamo sviluppato un inedito entusiasmo per la democrazia diretta, dove al grido di “uno vale uno” (l’esatto contrario del valore di un establishment) abbiamo reso senza complessità e profondità il processo decisionale;
- abbiamo di conseguenza alimentato una buona dose di populismo, con un diretto rapporto fra un vertice sempre più stretto e una moltitudine sempre più indistinta, in una dialettica socio-politica aperta a pericolose scivolate nell’equilibrio fra i poteri.
Questa grande stagione di decostruzione della funzione dell’establishment ha funzionato con tanto successo che ci ritroviamo senza sedi e strumenti per controllare l’attuale dinamica della composizione sociale e delle relazioni sociali:
- non riusciamo più a controllare la sempre più accentuata proliferazione dei soggetti sociali e dei loro particolaristici orientamenti;
- e non riusciamo più a controllare il grande mondo delle reti, capaci sempre meno di connettività e sempre più canali di sconnessione fra singoli soggetti.
Non siamo messi bene e rischiamo una ulteriore confusione socio-politica se non si arriva a costruire, pezzo a pezzo (e con pezzi nuovi), un “fondale” di presenza culturale e di responsabilità collettiva per quegli strati di società che hanno cultura dello sviluppo e sono esperti della complessa macchina del governare. Verrebbe da dire: “aridateci una casta”, se non sapessimo che scenderebbero in campo decine di protagonisti dell’anti-casta; meglio, senza polemiche, cominciare a capire dove e come ricostruire brandelli di cultura di élite e di sedi di mediazione socio-politica. In proposito vanno esplorati tre percorsi diversi.
a) Il primo è quello di prepararsi a vivere con cultura alta le grandi sfide che ci vengono imposte dai processi di globalizzazione e dai poteri sovranazionali, e che viviamo in condizioni di sostanziale passività. Eppure molti di noi ricordano come nel potere globale degli anni ’50 (di fatto accentrato nel Governo americano e nella Banca Mondiale) gli interessi italiani furono con successo interpretati da personaggi (Menichella, Giordani, Saraceno, Campilli, Pescatore) che erano espressione di strutture di grande consistenza economica e politica (dalla Banca d’Italia all’Iri, alla Svimez). Così come molti di noi ricordano quel ricco insieme di personaggi (e di strutture) che si dedicò all’unificazione europea sia nelle iniziali trattative degli anni ’50, sia poi nella delicata congiuntura dell’accettazione dei parametri di Maastricht.
C’è da domandarsi perché non si riesca più a creare quella convergenza e compresenza di tre o quattro strutture e relative persone chiamate a perseguire tre scopi precisi: gestire i sempre più intricati problemi della globalizzazione, specie finanziaria (in Banca d’Italia?); farsi parte attiva nella contrattazione sul prossimo sviluppo europeo (Tesoro e/o Sviluppo economico?); e avviare la sfida della politica mediterranea e africana (Esteri e ormai anche Interni).
b) Il secondo percorso da sperimentare per la rivitalizzazione di una cultura di establishment è quello di ripercorrere le “appartenenze” collettive in cui possono crescere germi di nuova classe dirigente, di responsabilità di sistema. Non c’è dubbio che negli ultimi decenni sono state le appartenenze a fare classe dirigente “alta”: l’appartenenza ad una ideologia, con la relativa generale visione del mondo; l’appartenenza ai grandi partiti di massa e, all’interno di essi, a specifiche correnti intellettuali, programmatiche, organizzative, di potere; l’appartenenza ad uno dei grandi soggetti di rappresentanza e alla loro tendenza a pensare al sistema, non solo a interessi collettivi; l’appartenenza a qualche circuito stretto, magari amicale o di piccola consorteria, capace di stabilire sistemi di relazioni umane, professionali, di avanzamento sociale.
Valgono ancora, almeno in parte, queste appartenenze; ma non sembrano oggi capaci di garantire un convogliamento di energie verso progetti comuni e verso una comune gestione del quadro decisionale. Bisogna probabilmente partire da più lontano, su un asse di progressione che parta dalla conclusione che un nuovo establishment può venire solo da una crescita neo-borghese, con quei dispersi gruppi che vogliano andare oltre la cetomedizzazione e la sua involuzione; che il nuovo establishment si centri sulla valorizzazione della cultura tecnico-politica, in modo da sfuggire alle mediocrità quotidiana; e sappia mettere insieme la capacità tecnica (di conoscenza concreta dei problemi) e il coraggio di pensare traguardi futuri in termini di futuro sistema.
Può apparire a molti che scegliere di far crescere le migliori componenti neoborghesi con una dose forte di cultura tecnico-politica sia una ipotesi debole nella scompaginata situazione della classe dirigente italiana. Ma è l’unica oggettivamente plausibile.
c) Del resto, è una ipotesi spendibile anche nel territorio, nel recente passato grande bacino di nuova classe dirigente, ma che oggi non sembra in grado di esprimere ancora progetti e responsabilità lontane dal particolarismo localistico e più vicine al bisogno di un sempre più massiccio coinvolgimento dei territori nella dinamica internazionale.
Il clientelismo ha caratterizzato gli ultimi anni di sviluppo territoriale, ha cambiato il riferimento della classe dirigente spostandolo verso la dinamica della spesa pubblica e delle procedure (e i poteri) ad essa funzionali. Di fatto, è diminuito il riferimento alla vitalità dei distretti (e ai suoi protagonisti economici) ed è aumentato il riferimento ai portatori di finanziamenti pubblici e ai gestori di spesa nei diversi enti locali.
Se tale forza inerziale dovesse continuare ad operare nei prossimi anni, non ci sarebbero speranza e spazio per un establishment capace di triangolare fra localismo, dinamica nazionale e globalizzazione. I singoli soggetti del territorio (famiglie, aziende, enti locali) saranno sempre più propensi a gestire in proprio i fili esterni dei propri interessi (le aziende nella dinamica dell’esportazione, le famiglie nell’allocazione del risparmio anche oltre i tradizionali strumenti domestici) e la comunità avrebbe la tentazione di rinserrarsi nella coesione interna. Sempre meno vitali sarebbero allora le spinte al protagonismo economico del territorio.
Per uscire in avanti ci sarebbe da scommettere su due meccanismi e sedi di coagulo: il consorzio di filiera, per convogliare le aziende migliori sul mercato internazionale; e il consorzio di piattaforma, uno strumento anche tecnologico per predisporre e offrire servizi ai vari soggetti locali, sia quelli che vogliano migliorare la qualità della vita collettiva, sia quelli che abbiano la volontà di misurarsi sulla sempre più complessa dinamica competitiva. Far funzionare al meglio la dinamica delle filiere e delle piattaforme (e i loro eventuali consorzi di gestione) è la sfida che va affrontata dalle classi dirigenti locali, se vogliono restare vitali.
3. Il sociale che traina l’economia
È opinione diffusa che nel processo di sviluppo sia la politica ad essere il soggetto principale delle necessarie e opportune trasformazioni economiche, che poi conducono ad una complessiva evoluzione della società, dei suoi soggetti e dei suoi stessi valori.
E se fosse vero il contrario? Se fossero la dinamica e la dialettica sociale ad imporre e sostenere sostanziali trasformazioni economiche, magari “triangolando” con una qualche componente di azione politica?
Non si pensi che una tale domanda sia l’effetto di un delirio sociologico, che non ha mai fatto parte della cultura Censis, da sempre legata ad un impegno di approfondimento dei legami interdisciplinari fra economia, ricerca sociale e politica. È invece una domanda che nasce da una constatazione che in parte sorprende anche noi: la constatazione che in questo periodo (da almeno dieci anni a questa parte) è la realtà sociale ad imporre un’attenzione politica ed economica alle proprie tensioni e alla sua dialettica.
Basta sfogliare i giornali e fin dai titoli e sottotitoli si intuisce questa imposizione: la lotta alla povertà; la riduzione delle disuguaglianze; il riconoscimento di un reddito di cittadinanza, di un salario garantito, di un reddito di inclusione; la lotta alla disoccupazione giovanile; il bisogno di risorse per lo sviluppo dei diritti (qualsivoglia essi siano); la rincorsa attraverso bonus di vario tipo a specifiche realtà di bisogno o di disagio sociale; per non parlare di provvidenze antiche (l’invalidità, ad esempio) che da sempre sono rivoli di sussistenza economica di intere comunità locali.
Insomma, il sociale sembra il vero motore dell’economia italiana di questi anni, con un conseguente impasto di imperativi etici, di pauperismo e di diffuso rancore, che ha finito per condizionare la stessa vicenda politica. Il problema è che questa primazia del sociale è oggi in uno stato troppo indistinto per non essere un po’ confusa, praticamente senza grandi assunzioni di responsabilità: un sociale indistinto, pieno di istanze diverse e spesso pressanti, che attiva e impone un’attenzione politica, con impegni d’intervento pubblico conseguentemente a pioggia, finisce per creare un mondo senza responsabilità. Quali soggetti gestiscono i meccanismi e i poteri attraverso cui il sociale influisce sull’economico?
Da una parte ci sono i tanti piccoli soggetti (di terzo settore, di terziario sociale, di volontariato, ecc.), la cui presenza è molto visibile in prima battuta, ma che non riescono poi ad avere un esplicito ruolo politico: restano soggetti specifici con specifiche contingenti presenze, lasciando alla dinamica delle decisioni economiche la responsabilità di accedere, a pioggia, nelle diverse contingenze. Lo stesso tentativo di unificarne almeno la definizione (ad esempio, l’ultima legge sul “terzo settore”) finisce per lasciare fuori una gran parte dei processi e dei soggetti che fanno sociale ed economia insieme: dai tanti che lavorano nella dinamica delle comunità locali ai tanti che orbitano nel campo della longevità, ai tanti che fanno associazionismo (di pazienti e familiari) nel campo medico-sanitario, ai tanti che fanno volontariato senza aggregarsi in meccanismi associativi o istituzionali, ai tanti che fanno parte della diffusa presenza sociale del mondo cattolico.
È un grande mondo, ma è difficile coagularlo in termini politici, non puramente di difesa dell’esistente: è difficile perché esso, non rientrando negli schemi classici delle vicende economiche (non sta nel mercato, non sta nella sfera d’intervento pubblico), finisce per non avere una identità autonoma, sistemica. Può essere chiamato in causa in occasioni speciali (magari di calamità in specifici territori), ma non riesce ad avere una propria identità politica.
È la sfida da affrontare nel prossimo futuro, partendo dal bisogno di coagulare politicamente (oltre l’attuale coagulo tutto sindacale) tutti i soggetti che fanno sociale. Se è permessa una vecchia citazione Censis, il terzo settore oggi è un campo di fili d’erba che faticosamente genera qualche cespuglio, ma non una chiara soggettualità politica e quindi una chiara assunzione di responsabilità nella gestione del raccordo fra dinamica sociale, dinamica politica e dinamica economica.
Una situazione analoga a quella del terzo settore la si ritrova nel secondo grande spazio di crescita economica trainata dal sociale: la progressiva trasformazione del nostro sistema di welfare. Anche se l’opinione prevalente è quella di un welfare a forte componente pubblica e con una sostanziale compattezza organizzativa (il sistema sanitario, il sistema pensionistico, il sistema scolastico), di fatto nel corso di pochi anni l’idea tradizionale di welfare si è andata dimenticando in virtù di una spietata articolazione delle responsabilità; ed ha di conseguenza aperto lo spazio a opportunità e impegni privati economicamente significativi. Si pensi solo a quanto crescente significato hanno termini (e mondi) come:
- welfare aziendale, con tutta la moltiplicazione dei diversi provider di prestazioni;
- welfare comunitario, con tutta la moltiplicazione di spazi per interventi di grande impegno economico (il
social housing), oltre che di offerta di servizi alle diverse categorie di bisogni sociali e alla complessiva qualità della vita locale;
- welfare integrativo, a prevalente componente di assicurazione privata e dei soggetti relativi;
- welfare categoriale, con un potenziale ritorno ad una logica mutualistica;
- per non parlare del welfare personalizzato, dove ha un peso fondamentale la gestione del risparmio e della ricchezza patrimoniale dei singoli e delle singole famiglie.
Si può facilmente immaginare che in questa molteplice configurazione di quella che una volta era la unitaria politica del
welfare state crescano opportunità economiche diverse e proliferanti: vi si trovano dentro grandi compagnie assicurative; piccoli e grandi gestori di risparmio individuale e familiare; tantissimi operatori del terzo settore, spesso anche a delega o supplenza a livello locale di interventi pubblici; tante diverse configurazioni di mercato di professionisti pubblici (dall’aziendalizzazione degli studi alla crescita di un’offerta low cost); tanti operatori terziari finora sconosciuti (progettatori di interventi, provider di servizi, consulenti finanziari, ecc.).
È un mondo già importante e destinato verosimilmente a crescere e ad impattare non solo sui nostri modelli di welfare, ma probabilmente anche su una parte non indifferente dell’economia italiana. E un mondo che non va trascurato sulla base delle volontà politiche di riformare la dimensione statuale del welfare.
Non è più tempo di dividerci su Stato e mercato in materia di welfare: c’è solo da prendere atto che il mondo è cambiato e che le tante iniziative che vanno sorgendo sulla disarticolazione del vecchio
welfare state sono ormai economicamente significative e tali da far pensare che non sia azzardato dire che il sociale (anche quando è disarticolazione del tradizionale
welfare state) sta sempre più trainando l’economico.
4. Riflessioni di un continuista in un periodo di “tutt’altro”
1. Per coloro, me compreso, che non si affannano sulla cronaca politica e i suoi retroscena, la formazione e il programma del nuovo governo pongono una paradossale domanda: sono una ulteriore esplicazione della forte discontinuità politica espressa dalle elezioni di marzo? O sono piuttosto i segni di un’attrazione demoniaca al continuismo, inteso come progressivo italico adattamento al nuovo, anche il più radicale?
Io sono convinto che è il continuismo la vera logica di evoluzione (o stabilizzazione) che caratterizza da decenni il sistema sociale e politico del nostro Paese. Per cui, da suo antico (e criticato) profeta, mi sono fatto prendere dalla curiosità di verificare come e quanto si scontrassero nelle ultime settimane gli opposti istinti di discontinuità e continuismo, analizzando a tal fine i comportamenti delle forze in campo, il programma di governo faticosamente messo insieme e la composizione del governo stesso. E chiedo venia se questo mio impegno di analisi ha prodotto la strana frustrante sensazione di rivedere all’opera il “mio” continuismo.
2. Anzitutto nei comportamenti delle forze in campo, dei protagonisti di vertice di questi mesi. Molti hanno pensato in proposito che abbiano vinto comportamenti di voluta, sottolineata, aggressiva, gridata, rozza alterigia, quasi fosse necessario, per i “vincitori” della tornata elettorale, mostrarsi diversi degli “altri”, passati o presenti che siano.
Eppure, a coloro che hanno accompagnato lo sviluppo degli ultimi decenni non è sfuggito che le “villanate” di queste settimane hanno ricalcato una schiera pluridecennale di comportamenti maleducati assunti a strumenti politici. Ero ancora un ragazzo quando in piena piazza San Giovanni, proprio sotto casa, mia Togliatti (peraltro finissimo intellettuale) prometteva di prendere a calci nel di dietro il rivale De Gasperi; così come ricordo bene la fredda spregiudicatezza con cui nei primi anni ’60 Carli e Colombo avocarono tutto il potere nella politica monetaria, astraendosi da un popolo che si stava godendo un inatteso piccolo miracolo economico; ricordo bene anche la pretesca impudenza con cui De Gasperi fu messo ai margini dai suoi stessi compagni di partito, strategia ripetuta quindici anni dopo nell’emarginazione di Moro; ricordo la teppistica arroganza dell’avventura di Tambroni nel 1960 (anche contro caldi moti di piazza); ricordo lo sbrigativo modo con cui Fanfani tentava di far fuori i suoi concorrenti, lui che pureaveva studiato e insegnato in Università Cattolica; ricordo bene lo spirito corsaro, spesso ai limiti della malcreanza, con cui si fece strada Craxi (e ricordo la interna violenza, pur educatissima, con cui lo contrastò Belinguer); e, per restare all’ultimo decennio, penso alla sgarbata successione a Palazzo Chigi fra Letta e Renzi. In fondo, non credo di sbagliare dicendo che c’è stata una linea di continuità nella villania (anche istituzionale) usata come strumento di azione politica: gli attuali nuovi protagonisti della politica italiana ne hanno solo tratto esempio, più continuisti di quanto essi stessi pensino.
3. Ancora più continuista mi è apparso il modo in cui si è definito il programma del nuovo governo, attraverso molti e fotografati gruppi di giovani incaricati di rimettere su carta le forti dichiarazioni della campagna elettorale e di farne delle intenzioni e degli impegni di governo. Mi sono venuti irresistibilmente alla memoria gli anni ’50 e ’60 quando noi giovani ricercatori della Svimez e dell’Iri venivamo incaricati dal prof. Saraceno di scrivere capitoli dei grandi documenti di piano o di un programma di un singolo governo: ci spiegava il senso tecnico-politico dell’operazione (concordato più in alto con Vanoni, prima, e poi con La Malfa e Moro) e ci lasciava all’allegro lavoro di compilazione dei singoli capitoli. Poteva capitare che fossero capitoli per noi ben conosciuti (penso ai miei testi sulla politica scolastica o sulla formazione professionale), ma poteva anche capitare di dover scrivere qualcosa di meno consolidato (penso ad alcuni miei testi sulla chimica fine o sugli enti lirici). Tutti comunque con grande lena scrivevamo pagine e pagine, poi però i nostri “capi settore” (da Sebregondi a Novacco, ad Annesi) rivedevano gli scritti, emendandoli e cancellandoli prima di portare tutto a Saraceno, che alla fine rivedeva minuziosamente tutto (chiamando a confronto talvolta qualcuno di noi nella sua casa di Villa Fratelli Ruspoli) e poi portava ai politici un testo compatto e senza sbavature.
Non dico che fossero programmi meravigliosi, ma almeno avevano avuto un doppio, anzi un triplo, controllo tecnico-politico. Non andavano direttamente, quasi con posta pneumatica, all’onore o al disonore del mondo. Senza fare polemiche, mi sento solo di rilevare che il metodo delle scorse settimane è esattamente lo stesso di sessanta anni fa, in una continuità di comportamenti redazionali che mi impressiona, anche se con la contropartita di una “botta” di ringiovanimento.
E forse questo continuismo di metodo ha marchiato anche il contenuto e lo stile del materiale programmatico prodotto, troppo segnato (proprio come i nostri testi di allora) da indicazioni di massima, da volenterose intenzioni, da prudenti ambivalenze, da furbi scivoloni nel generico.
Non mi espongo a dire che gli attuali documenti programmatici li avremmo scritti meglio noi, giovani ricercatori degli anni ’50, posso solo constatare che metodi e contenuti non sono cambiati: la continuità delle cose e il continuismo dei processi umani finiscono per vincere se la discontinuità tutta intenzionale non riesce a tradurre in testi con azioni precise la propria carica innovativa.
4. Questo ancoraggio quasi esistenziale alla storia e alla realtà lo si ritrova anche in un terzo aspetto oggi sotto gli occhi di tutti: la composizione della classe di governo. Qui l’incoerenza fra il break duro delle elezioni e le paludose vicende della formazione del nuovo governo non potrebbe essere maggiore: le elezioni avevano creato un’onda di inattesi protagonisti, orientati a “fare il nuovo” e ad esserne la guida concreta; ma nel giro di poche settimane quella opzione non è così radicale e definitiva come si pensava.
Abbiamo infatti assistito a due direzioni di marcia:
- da un lato, con radicalità abbiamo escluso ogni recupero dei componenti delle precedenti gestioni politiche; abbiamo escluso con forza il ricorso ai tecnici e rivendicato il primato della politica; abbiamo contestato la dipendenza verso regole e istituzioni esterne ed ancor più verso i loro gestori politici e tecnici; abbiamo trascurato il peso delle grandi centrali burocratiche, forse nella illusoria convinzione che “l’intendenza seguirà”; e abbiamo soprattutto perseguito la morte del potere di quell’ambiente trasversale (fatto di amministratori, funzionari, banchieri, industriali, intellettuali) che ci si è abituati a definire sprezzantemente establishment o addirittura “casta” (anche se di fatto è stato il vero e antico soggetto di stabilizzazione dei processi decisionali);
- questo lungo elenco di volontà di cambiamento (contro i tecnici, le istituzioni europee, l’alta burocrazia, l’establishment) poteva far pensare ad una rapida costituzione di una classe dirigente alternativa. Ma la cosa risulta più difficile di quanto si pensasse e dovremo aspettare: che crescano le capacità tecnico-politiche dei giovani redattori del programma; che qualche segmento di alta burocrazia si allinei ai nuovi potenti con un più o meno interessato trasformismo; che le schiere di possessori di spendenti curriculum imparino a maneggiare il potere economico e amministrativo; che la qualità di chi vuole governare venga certificata dalla dinamica delle cose, più che nelle ambizioni e in isolate dichiarazioni personali.
E sembriamo allora quasi costretti a raschiare il barile di quel po’ di establishment che, per fedeltà civile o per amor di patria, non si sposti nella soggettivistica sfida a farsi una vita e un potere di personale soddisfazione, domestica e internazionale.
Nell’attesa che maturi qualcosa di ciò che desideriamo o aspettiamo, la società si concede una “sospensione” fra l’esigenza di una esplosione di una nuova classe di governo e un cauto silenzioso affidarsi alla classe dirigente che c’è, magari spigolando nelle pieghe dell’aborrito establishment esistente, specialmente in quelle più continuiste e conservative (avvocati, civilisti, accademici, lobbisti, amministratori), contribuendo di fatto all’assestamento congiunturale e al continuismo strutturale del sistema.
5. Queste brevi riflessioni sul possibile, sommerso, continuismo delle vicende italiane di quest’ultimo periodo potranno essere considerate da qualche maleducato come un “attaccarsi a qualsiasi cosa” pur di non accettare la saga storica di una Terza Repubblica.
Rispondo che sarebbe stato difficile spogliarmi della antica convinzione che il sistema italiano esprime sempre una sua capacità di adattamento, una sua elasticità di comportamento, se vogliamo anche una sua realistica e magari codarda dose di trasformismo. Nel bene e nel male, nella buona come nell’avversa ventura, questo sistema cambia continuamente pelle, ma nei fatti resta sempre lo stesso. L’unico dubbio mi viene da una domanda: siamo sicuri che il continuismo non porti, silenziosamente, ad una progressiva mediocrità del sistema?
Sono abbastanza sincero per dire che vedo anch’io il nesso fra continuismo e progressiva sistemica mediocrità; sono abbastanza cinico per dire che il continuismo è mediocre se la discontinuità è delirante; e sono abbastanza un professionista per non capire che la situazione di oggi rivela, non solo una mediocrità politica, ma anche e specialmente una speculare mediocrità di tutto il corpo sociale. È lo spazio di lavoro del prossimo futuro.
Roma, 6 giugno 2018