di Maria Mezzina
TESTIMONI DEL TEMPO
Il patrimonio culturale di una civiltà contadina racchiude negli oggetti della vita dei campi non solo la memoria di un pezzo di storia, ma anche valori. È una ricchezza che non può essere consegnata all’oblio, pena la perdita di identità dell’intera comunità.
Ci sono persone che nascondono la pienezza delle loro esistenze dietro un atteggiamento schivo, non per orgoglio o timidezza, ma per serietà e riservatezza. Vite vissute con onestà e coerenza. Comportamenti ispirati a pochi fondamentali principi: famiglia, lavoro, amicizia, senso dello Stato, libertà. Giobatta è uno di queste. Non ne rivelerò il nome reale. Credo che sia lui a preferire così.
Perché proprio Giobatta? Perché appartiene alla schiera (non numerosa) delle persone che hanno saputo lasciare un segno profondo. Giobatta è una quercia gentile, che ha saputo resistere alle tempeste offrendo riparo silenzioso e discreto. Merita, quindi, un saluto affettuoso e un grazie per aver saputo offrire a quanti lo hanno conosciuto e gli sono vicini una prospettiva che va oltre la specificità della sua persona.
Chi è Giobatta? È un uomo del Sud, di quella Calabria antica e tenace che non si piega né alle avversità, né alle ingiustizie. Giobatta è un uomo libero. Uno che ha inciso nella pietra le sue convinzioni, perché non manchino mai di fargli da guida e, come pietre miliari, segnino la strada per i viandanti che verranno. Una visita al regno di Giobatta è indicativa della persona. Pensieri. Testimonianze di un passato ricco e pieno. L’amore per la natura e per la terra, madre feconda. Il lavoro, specie, per la sua sacralità e la vicinanza alla terra, quello dei campi. La famiglia. Le amicizie. Il mare. La fotografia.
Il primo contatto con il mondo di Giobatta l’ho avuto un pomeriggio luminoso di estate grazie ad alcune sue foto. Appese in soggiorno dove con amici comuni stavamo gustando il fresco e il profumo di uno dei suoi rosoli a base di bacche e frutti di bosco, hanno attirato la mia attenzione. Il formato e le dimensioni delle foto tradivano la loro origine vetusta, ma furono la composizione e il gioco delle luminosità e dei contrasti a colpirmi. Vi si leggeva una capacità di usare la macchina fotografica e una tale vicinanza emotiva ai soggetti e alle scene riprese da rendere quelle immagini appese e discretamente in mostra delle vere e proprie opere d’arte. Il mio evidente interesse si è subito trasformato in curiosità – prontamente appagata – di conoscere più a fondo questo padrone di casa misterioso e gentile. Gli anni e le ripetute frequentazioni, anche se non numerose, hanno fatto il resto. E che resto!
Incoraggiato dagli amici che ci avevano fatto incontrare, Giobatta mi ha introdotto nel suo regno. A piano terra dell’antico palazzo di famiglia c’è un ampio spazio diviso in locali che prendono luce da un vano corridoio con finestre che si affacciano all’esterno, praticamente sul cielo. È lì che Giobatta mi ha accompagnato in un percorso nel tempo attraverso la civiltà contadina. Oggetti del passato che aveva raccolto e conservato negli anni, ordinati e catalogati con cura, facevano mostra di sé rivelando con la loro presenza storie antiche di fatica quotidiana e di laboriosità. Le immagini ammirate in soggiorno qui prendevano forma concreta, corpo e peso. Mentre la voce narrante di Giobatta le animava, riproponendo la loro funzione, per spiegarlo a me che ero affascinata dalla loro vista ma ero anche ben poco consapevole del loro significato e dell’uso che se ne faceva fin oltre la metà del secolo scorso.
Ora quegli oggetti sono diventati cimeli, memoria storica, patrimonio culturale. Andrebbero quindi tutelati e messi a disposizione della comunità presente e futura. Disperdere un tale patrimonio frutto di intelligenza e di amore, sarebbe come tagliare le proprie radici e condannarsi al declino. Se nell’indifferenza generale Amendolara (è questa la città di Giobatta) lasciasse cadere l’opportunità di trasformare la passione di uno dei suoi figli più degni in patrimonio culturale comune condannerebbe sé stessa al deserto dell’incultura e della irrilevanza, da sempre terreno fertile di degrado sociale.